Di albe e ore piccole piccole.

Non facevo l’alba per finire di leggere un libro da tempi immemori. Da quando non azzeccavo più un libro “giusto”. Da quando, soprattutto, me ne mancava la serenità per farlo.

È successo ieri notte, questa notte, questa mattina… oh, insomma! È successo.

Con Il viaggio dell’assassino di Robin Hobb, terzo volume della trilogia dei Lungavista.

Un fantasy poco “canonico” e allo stesso tempo tradizionale.

Magia, draghi, Arte e Spirito il tutto fasciato in descrizioni vivide e luminose. Al punto che senti gli occhi pizzicare, al punto che ti trovi ad annuire e ridacchiare. A estrapolare frasi sul tempo, sulla vita, sulla felicità, come se le sentissi dentro, come se fossero scritte per te.

Grazie Robin Hobb, per avermi fatto fare l’alba.
Per avermi fatto guardare il buio della notte con occhi diversi.
Per avermi fatto innamorare ancora di un personaggio letterario imperfetto, e tanto umano.

E grazie Efi per avermelo consigliato.

La Trilogia dei Lungavista è la prima ambientata nel regno dei Sei Ducati. Protagonista è Fitz-Chevalier Lungavista, un figlio illegittimo del Re che viene addestrato come Assassino di corte. Il suo scopo principale è quello di difendere il regno dalla minaccia dei Pirati delle Navi Rosse.

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La Trilogia dei Lungavista: 

Titoli: L’apprendista assassino, L’assassino di corte, Il viaggio dell’assassino

Autore: Robin Hobb

Traduttore: Paola Bruna Cartoceti

Edizione: Fanucci Editore, kindle Edition

Dietro il cielo. Dall’altro lato della pioggia. [Jonathan Strange e il signor Norrell]

Jane Austen e la magia.

Cosa può esserci di più perfetto?

Nulla. E infatti Susanna Clarke ha scritto un romanzo bello come pochi, con quell’anima ottocentesca, quelle donne indipendenti, tipici della Austen. E con una spolverata di magia che si fa sempre più intensa, sempre più divertente e sempre più oscura con lo scorrere delle pagine.

Niente intrecci irrisolti, solo una bella narrazione che non è per niente lineare, ma che racconta del “ritorno della magia in Inghilterra”.

E come non fare il tifo per Jonathan Strange? Che non è propriamente il bello e buono, ma che ispira simpatia fin dalle prime pagine. E come non odiare Gilbert Norrell, che invece dalle prime pagine si rivela essere tutt’altro?

Tra profezie, incantesimi, magie nere e amore, la trama si sviluppa per 800 pagine e alla fine ti lascia a bocca aperta, perché inaspettatamente delusa ma allo stesso tempo consapevole che non avrebbe potuto finire diversamente.

Grazie a Susanna Clarke per questa piccola perla.

E se veramente ne faranno una serie tv, spero ne sia all’altezza perché se lo merita.

All’inizio dell’Ottocento, della magia inglese rimangono quasi solo leggende come quella di Re Corvo, il grande mago capace di fondere la sapienza delle fate con la ragione umana. Ma dalle regioni del Nord un tempo visitate da elfi e folletti appare il signor Norrell, capace di far parlare le statue della cattedrale di York: la notizia sembra segnare il ritorno della magia in Inghilterra, e Norrell si trasferisce a Londra per offrire i suoi servizi magici al governo, impegnato nella guerra contro Napoleone. Ma una profezia parla di due maghi che faranno rinascere la magia inglese. Uno dei due maghi èNorrell. E l’altro chi è?

Titolo: Jonathan Strange e il signor Norrell

Autore: Susanna Clarke

Traduttore: Paola Merla

Edizione: Longanesi, Hardcover, 2005, illustrazioni di Portia Rosenberg

L’essere soddisfatti di sé significa essere vili e ignoranti, ed è meglio aspirare a qualcosa che essere ciecamente, e impotentemente, felici. [Flatlandia]

Ho sempre amato molto la “fredda” logica dietro la matematica e la geometria.

C’è un che di stranamente consolante e allo stesso momento spaventoso nel fatto che ogni cosa possa essere ridotta in numeri o equazioni. E che la realtà si possa rappresentare attraverso di essi.

La scoperta dell’esistenza di Flatlandia, quindi, mi ha turbato e attirato nello stesso tempo.

Sarei stata in grado di leggere qualcosa che parlasse di geometria senza farmi venire l’orticaria?

Ne avrei capito qualcosa?

Flatlandia è un libro diviso in due parti, narrato attraverso la voce di un Quadrato.

A Flatlandia non esiste la terza dimensione, tutto è largo e lungo… E basta. Tutto è piatto. Si vive in due dimensioni.

E già questo richiede un notevole sforzo mentale. Abbandona l’idea della terza dimensione. Pensa di vivere su un foglio.

A Flatlandia, tutto appare come una retta.

Quanta fatica ho fatto nell’immaginare un mondo piatto! Come tornare al liceo a far le proiezioni ortogonali di qualsiasi cosa. E lì, l’illuminazione.

Dicevo, Flatlandia è diviso un due parti.

Nella prima parte, il Quadrato-narratore ci racconta la vita di tutti i giorni a Flatlandia, la distinzione delle figure geometriche, la suddivisione sociale.

Alla base gli Isosceli, triangoli pericolosi, non regolari, con angoli acuminati.

Al vertice, i Circoli. Figure con lati talmente piccoli da essere praticamente trascurabili ed essere considerati come circonferenze.

Le donne sono sempre e solo linee rette.

A proposito delle donne di Flatlandia, leggermente permeato di maschilismo ‘sto librettino eh?!

Nella seconda parte, attraverso un sistema di visioni e di “apparizioni”, il nostro Quadrato fa l’esperienza di Linelandia, Puntolandia e Spacelandia, rispettivamente il mondo unidimensionale, adimensionale e tridimensionale.

Se le due dimensioni vi mettono in crisi, nulla possono Linelandia e Puntolandia. Pensare a una retta come un mondo vuol dire immaginare nessun’altra dimensione se non la lunghezza. Né destra, né sinistra. Né su, né giù.

Ma ancora peggio, Puntolandia: adimensionale, non esiste nulla se non il punto. E il Punto non concepisce altro che sé stesso, tanto da considerarsi un dio, un re, e l’essere perfetto.

Spacelandia finalmente è quasi pienamente accessibile: sono i solidi. Roba di tutti i giorni. Sfere e cubi, quasi divinità agli occhi di un Quadrato.

Che apre finalmente il suo pensiero e… Se ci fosse una Quarta dimensione?

La fine è abbastanza semplice da capire. Il ritorno a Flatlandia per il nostro povero Quadrato è quasi un trauma. D’altra parte lui Sa. Ma non riesce a spiegare né a convincere nessuno.

Flatlandia è un libro didattico, divertente e filosofico allo stesso tempo. Si ripete la geometria in maniera simpatica, ci si diverte a provare anche solo a immaginare un mondo diverso dalle tre dimensioni, si pensa alla situazione umana. Che di dimensioni, forse, ne ha quattro, ma che molto spesso si sente come il Punto.

Consigliato? Assolutamente sì. Anche a chi la matematica e la geometria l’ha sempre odiata.

Copertina Flatlandia

“Il mondo è una superficie piana come quella di una carta geografica, sulla quale i flatlandesi scivolano senza sovrapporsi. La loro è una società rigidamente gerarchica: la casta più vile è quella delle donne, semplici righette con sulla punta un occhio, come aghi; viste dall’altro estremo, le donne diventano invisibili, così che a loro basta rivoltarsi per scomparire. Se un maschio per caso si imbatte nell’invisibile didietro di una donna, può rimanerne trafitto, per ciò la legge impone alle femmine l’obbligo di dimenarsi sinuosamente, senza sosta, per evitare incidenti”.

Titolo: Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni

Autore: Edwin A. Abbott

Traduttore: Masolino d’Amico

Edizione: Adelphi, 2011, Edizione Kindle

Letteratura di genere e pregiudizi.

E ci risiamo.

Mi tocca di nuovo leggere che il fantasy e la fantascienza sono letteratura di serie B. Anzi, stavolta il passo è ancora più marcato.

Asimov è uno scrittore nel vero senso della parola, tutti gli altri sarebbero fuffa.

Ma, scusate… Perché?

Sono la prima che si è accostata al fantasy con Harry Potter. Ho letto le Cronache del Mondo Emerso di Licia Troisi, pur trovandolo banale, la saga delle Oscure Materie di Pullman, pur trovandolo più un modo per professare la propria diffidenza verso il credo religioso che un fantasy. Tolkien, la Scacchiera Nera, Black Friars, senza mai pensare di stare leggendo, per partito preso, letteratura di serie B.

Non sono riuscita a leggere Twilight, non tanto perché sia un urban fantasy, ma perché non è scritto bene.

Non riesco a leggere la fantascienza perché mi angoscia che un futuro, neanche troppo lontano, possa essere governato dalle leggi delle macchine [e lo so che già lo è in parte, ma cerco di non pensarci].

Perché alcuni generi, che si prestano alla “scrittura” più di altri, devono essere considerati di serie B?

E ci includo anche la letteratura rosa, quella erotica e i noir. Come se, dato il fatto che oggettivamente è più semplice scrivere di una coppia che è felice dopo mille peripezie, possa classificarla automaticamente come scadente.

Io trovo scadenti i libri, a volte perché scritti da autori che, secondo me, dovrebbero fare tutt’altro nella vita, altre (ma più rare) perché credo che alcuni libri non avrebbero mai dovuto vedere le pagine stampate, ma rimangono mie opinioni.

E certamente non classifico di serie B tutto un genere solo per quel libro, quell’autore, o semplicemente perché non ce la faccio.

Come non riesco a leggere i saggi. Mi annoiano, li trovo,  a volte, solo sfoggio di tracotanza.

Ma mi è capitato di trovare saggi assolutamente nelle mie corde, scritti per me, per il mio modo di leggere.

Non saremmo lettori più felici se non ci facessimo prendere dal pregiudizio: “no, questo genere no”?

Ma soprattutto, un lettore non impara ad aprire la mente a tutto? Non arricchisce la propria vita con quello che legge?

Un lettore può avere pregiudizi?