Le imprevedibili virtù dell’ignoranza

Spente le luci degli Oscar, ho praticamente da recuperare ogni film candidato e premiato a parte Gran Budapest Hotel.

Volevo iniziare da The Imitation Game, ma gli orari impossibili programmati da The Space hanno fatto sì che si ripiegasse su Birdman, proiettato in un piccolo multisala indipendente.

E la magia inizia da lì: bisogna aspettare fuori dalla sala, perché lo spettacolo precedente (Selma, per la cronaca) non è ancora finito.

E allora, tutti in attesa dietro la porta con i tendoni, chiacchierando del più e del meno -bottiglie di acqua tonica che esplodono dalle cannucce (ma sorvoliamo).

Con l’avvento dei multisala di catena, schiavi dei blockbuster e degli incassi, avevo quasi dimenticato la sensazione delle poltrone piccole e comode, dei tendoni che chiudono i tagli di luce delle porte, le attese e le sale piene con meno di 150 persone.

Per fortuna, ogni tanto, piccoli capolavori, altrimenti non distribuiti, mi ricordano quanto è bello andare al cinema.

Birdman è uno di quei film.

Un film con attori parte del mega franchise dei supereroi, che parla della difficoltà di uscire da quel mondo, che cerca di “denunciare” in qualche modo la pericolosità di quei film che riempiono le sale, con effetti speciali spaventosi, ma che rendono schiavo l’attore stesso, di ruoli che non lo abbandoneranno mai.

Perché sono celebrità… non attori.

E ti trovi a sorridere, sghignazzare, per le situazioni grottesche, per la riuscita di questi confronti e demonizzazioni.

Si parla degli XMen, di The Avengers, di attori reali, talmente invischiati e prigionieri dei loro costumi da essere quasi inscindibili ormai.

Per un attimo si è confusi, si inizia a credere che i poteri di Birdman esistano sul serio, che Birdman stesso esista sul serio.

E poi si capisce, a un certo punto, come una rivelazione improvvisa, che Birdman è la voglia di essere qualcuno. Quella voglia di non essere dimenticato, di essere veramente importante, non solo nella vita di chi ti vuole bene, perché a un certo punto quello non basta più.

Sai che Farrah Fawcett è morta lo stesso giorno di Michael Jackson?

Devo ancora vedere La Teoria del Tutto, quindi non saprei dire quanto Redmayne sia stato bravo (conoscendo l’attore, direi molto a prescindere) ma Michael Keaton è veramente superbo, talmente in parte da farmi pensare che i turbamenti del protagonista siano gli stessi che in parte, arrovellano anche lui.

Di sicuro Emma Stone è meravigliosa come sempre, anche col trucco sbavato e le calze strappate.

E Edward Norton è… tanta tanta roba. Nonostante gli anni che passano.

Stelline a fiumi per Birdman. I piccoli difetti vengono completamente surclassati dai pregi. 

Non si giudica un libro dalla copertina. Tranne qualche volta.

Ci ho pensato veramente tanto se scrivere questo post.

Alla fine mi son decisa, perché come per tante altre cose, via il dente via il dolore.

Giovedì scorso è finalmente uscito il film di 50 sfumature di grigio. Dico finalmente perché magari ora finirà tutto quel tam tam mediatico attorno a questo obbrobrio.

All’epoca lessi il libro (i libri, visto che di trilogia trattasi) perché, pur convinta fosse un’emerita cretinata, non volevo giudicare senza conoscere.

E me ne sono pentita amaramente.

Sono scritti male, non per la storia, o per le pratiche sadomaso, ché in camera da letto ognuno fa quel che gli pare, quanto proprio per lo stile (ahahahahahah) e per la scelta dei vocaboli (ahahahahahah). Possiamo anche dar la colpa ai traduttori, ma prendendo la versione originale, nulla cambia: assenza completa di sinonimi, incapacità di descrivere situazioni, persone e paesaggi senza farli sembrare liste delle spese, continue ripetizioni di termini in capo a poche righe e utilizzo di termini poco… consoni (se scrivi un libro erotico, non puoi chiamare gli organi genitali femminili lì).

Peggio ancora è il messaggio che veicolano tali libercoli. Christian Grey è un uomo con gusti particolari, ma è soprattutto un maniaco del controllo, che manipola per ottenere quel che vuole, e che scopre in Anastasia Steele una persona da manipolare alla meglio. La valuta, la circuisce e le fa dire sempre sì, anche se lei si sente oppressa, anche se è inesperta di relazioni sessuali e ancor più di relazioni sentimentali.

Tutti i personaggi che E. L. James decide di far muovere sulla sua scena sono piatti, senza spessore, senza un minimo di introspezione, ma sono belli se buoni, brutti se cattivi. E basta.

E anche le tanto famose scene di sesso sadomaso, non esistono. E quando potrebbe sviluppare bene un argomento o un pezzo della trama, niente, cambia idea e supera quell’ostacolo semplicemente non parlandone.

Allora, perché ho visto il film? Perché dovevo chiudere un cerchio. Mettere una pietra sopra. E perché ero curiosa di vedere se avrebbero potuto migliorarlo, c’era così poco da fare.

E invece niente. Buchi di trama, presenti nei libri, si ripresentano nel film, che sembra semplicemente un’accozzaglia di scene a caso.

Dakota Johnson, alla fin fine non è neanche tanto male, ma le battute, le stesse del libro, pronunciate ad alta voce assumono un lato comico, che non sarebbe neanche male se fosse stato ben gestito.

Jamie Dornan, il conte di Fersen nella Marie Antoinette della Coppola e il Cacciatore in C’era una volta, è monoespressivo. Per cui fa perdere “carisma” al protagonista, che già non era positivo, ma nella pellicola diviene addirittura più viscido e più piatto che nel libro.

Con la visione di questo film mi dichiaro fuori dal giro, non vedrò i sequel (i miei neuroni non sopravvivrebbero).

Volevo solo dire che NO, io non lo voglio un Christian Grey, non voglio un uomo che mi controlla, che decide della mia vita, chi devo frequentare, chi no, chi devo chiamare, che macchina devo guidare. Non lo voglio neanche se mi regala la suddetta macchina, un mac, un ipod, un ipad, un cellulare, una casa.
Preferisco la mia libertà, a uno stalker che passa per romantico.

E volevo solo far notare, a coloro le quali lo vorrebbero, che è uno stalker manipolatore. Che nella vita vera si traduce in un uomo che, nella migliore delle ipotesi, mollate dopo esserne state distrutte psicologicamente (e a volte fisicamente), nella peggiore vi molla lui, morte in un fosso.

E la prossima volta che avrò la sensazione di una min*hiata editoriale, lascerò che pensino che sono una lettrice snob, che giudico senza conoscere, ma non leggerò mai più una boiata simile.

Grazie.

La strada è sempre decisa, non però in senso fatalistico. [Kitchen]

“Non c’è posto al mondo che non ami di più della cucina…” Così comincia il romanzo di Banana Yoshimoto, Kitchen. È un romanzo sulla solitudine giovanile. Le cucine, nuovissime e luccicanti o vecchie e vissute, che riempiono i sogni della protagonista Mikage, rimasta sola al mondo dopo la morte della nonna, rappresentano il calore di una famiglia sempre desiderata. Ma la grande trovata di Banana è che la famiglia si possa, non solo scegliere, ma inventare. Così il padre del giovane amico della protagonista Yūichi può diventare o rivelarsi madre e Mikage può eleggerli come propria famiglia, in un crescendo tragicomico di ambiguità. Con questo romanzo, e il breve racconto che lo chiude, Banana Yoshimoto si è imposta all’attenzione del pubblico italiano mostrando un’immagine del Giappone completamente sconosciuta agli occidentali, con un linguaggio assai fresco e originale che vuole essere una rielaborazione letteraria dello stile dei manga.

Gli autori giapponesi hanno una leggerezza nel raccontare anche le cose più gravi e serie, che ti aiuta a recuperare un minimo di serenità e a volte ti aiuta a cambiare prospettiva.

Questo libro di Banana Yoshimoto racchiude tre racconti, Kitchen, Plenilunio e Moonlight Shadow, e tutti e tre parlano di perdita, di lutto e di mancanza.

Nel primo, la protagonista perde la madre. Nel terzo il fidanzato.

Il secondo è la continuazione del primo e non voglio anticipare niente.

Quello che mi colpisce, della Yoshimoto, come di Murakami, è la facilità con cui affrontano questi argomenti, ne parlano, li analizzano, e li lasciano andare, senza in alcun modo turbare il lettore, o affaticarlo.

Come se fossero leggeri come piume, nonostante la pesantezza della mancanza.

Questo libro della Yoshimoto è solo la conferma di quanto la cultura e la realtà del Sol Levante siano lontani da noi. O di quanto noi siamo lontani da loro nell’essere… vivi.

4 stelle. E un senso di leggerezza che spero di portarmi addosso per un po’.

Titolo: Kitchen

Autore: Banana Yoshimoto

Traduttore: Giorgio Amitrano

Edizione: Universale economica Feltrinelli, Paperback, 1997

Dietro il cielo. Dall’altro lato della pioggia. [Jonathan Strange e il signor Norrell]

Jane Austen e la magia.

Cosa può esserci di più perfetto?

Nulla. E infatti Susanna Clarke ha scritto un romanzo bello come pochi, con quell’anima ottocentesca, quelle donne indipendenti, tipici della Austen. E con una spolverata di magia che si fa sempre più intensa, sempre più divertente e sempre più oscura con lo scorrere delle pagine.

Niente intrecci irrisolti, solo una bella narrazione che non è per niente lineare, ma che racconta del “ritorno della magia in Inghilterra”.

E come non fare il tifo per Jonathan Strange? Che non è propriamente il bello e buono, ma che ispira simpatia fin dalle prime pagine. E come non odiare Gilbert Norrell, che invece dalle prime pagine si rivela essere tutt’altro?

Tra profezie, incantesimi, magie nere e amore, la trama si sviluppa per 800 pagine e alla fine ti lascia a bocca aperta, perché inaspettatamente delusa ma allo stesso tempo consapevole che non avrebbe potuto finire diversamente.

Grazie a Susanna Clarke per questa piccola perla.

E se veramente ne faranno una serie tv, spero ne sia all’altezza perché se lo merita.

All’inizio dell’Ottocento, della magia inglese rimangono quasi solo leggende come quella di Re Corvo, il grande mago capace di fondere la sapienza delle fate con la ragione umana. Ma dalle regioni del Nord un tempo visitate da elfi e folletti appare il signor Norrell, capace di far parlare le statue della cattedrale di York: la notizia sembra segnare il ritorno della magia in Inghilterra, e Norrell si trasferisce a Londra per offrire i suoi servizi magici al governo, impegnato nella guerra contro Napoleone. Ma una profezia parla di due maghi che faranno rinascere la magia inglese. Uno dei due maghi èNorrell. E l’altro chi è?

Titolo: Jonathan Strange e il signor Norrell

Autore: Susanna Clarke

Traduttore: Paola Merla

Edizione: Longanesi, Hardcover, 2005, illustrazioni di Portia Rosenberg