Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza.

È la storia di un incontro, questo libro intimo e provocatorio: tra una grande scrittrice che ha fatto della parola il proprio strumento per raccontare la realtà e una donna intelligente e volitiva a cui la parola è stata negata. Non potrebbero essere più diverse, Dacia Maraini e Chiara di Assisi, la santa che nella grande Storia scritta dagli uomini ha sempre vissuto all’ombra di Francesco. Eppure sono indissolubilmente legate dal bisogno di esprimere sempre la propria voce. Chiara ha dodici anni appena quando vede “il matto” di Assisi spogliarsi davanti al vescovo e alla città. È bella, nobile e destinata a un ottimo matrimonio, ma quel giorno la sua vita si accende del fuoco della chiamata: seguirà lo scandaloso trentenne dalle orecchie a sventola e si ritirerà dal mondo per abbracciare, nella solitudine di un’esistenza quasi carceraria, la povertà e la libertà di non possedere. Sta tutta qui la disobbedienza di Chiara, in questo strappo creativo alle convenzioni di un’epoca declinata al maschile. Perché, ieri come oggi, avere coraggio significa per una donna pensare e scegliere con la propria testa, anche attraverso un silenzio nutrito di idee. In questo racconto, che a volte si fa scontro appassionato, segnato da sogni e continue domande, Dacia Maraini traccia per noi il ritratto vivido di una Chiara che prima è donna, poi santa dal corpo tormentato ma felice: una creatura che ha saputo dare vita a un linguaggio rivoluzionario e superare le regole del suo tempo per seguirne una, la sua.

Dacia Maraini è una scrittrice che parla delle donne, e ne parla sempre con una delicatezza e una sincerità che a volte è disarmante, a volte fa arrabbiare, a volte fa solo pernsare di esser fiera di essere una donna.

Il mio nome è in parte Chiara, e non potevo non essere attirata da un libro con questo titolo. Più ancora a causa del sottotitolo: “Elogio della disobbedienza”.

Chi non conosce Santa Chiara di Assisi? Nel “mito” promessa sposa di Francesco che, dopo la sua conversione, entra in convento.

In realtà, no. Ma nel modo più assoluto. Chiara è una nobile, e una bambina quando Francesco dà spettacolo di sè spogliandosi di tutto davanti al padre e al vescovo.

La Maraini entra nella vita di Chiara attraverso delle lettere di una ragazza di nome Chiara, lettere e mail di una Chiara confusa, in cerca di sé stessa, che le chiede di scrivere di Chiarra, di aiutarla a trovare il modo per capire qualcosa di sé.

E già qui, la rivoluzione. Si può capire sé stessi attraverso la vita di qualcuno lontano nel tempo? Di un santo?

Lo scambio epistolare si tramuta in un diario, in cui la scrittrice racconta i suoi giorni fatti di ricerche, di pensieri e di sogni su Chiara.

Già, i sogni. Attraverso le sue parole sembra di poter sentire i passi dei piedi nudi di Chiara nel convento.

E attraverso le sue parole, a volte astiose nei confronti dell’ordine ecclesiastico, ma quanta verità in quell’astio per la Chiesa medievale, Chiara prende corpo e sostanza. Donna di carne e ossa, mistica che ha “disobbedito” alle regole con la sua Regola, con la sua libertà e la sua povertà.

Donna che Ama. Nel senso più puro, più completo e più bello del termine.

Sprofondata in queste pagine, mi sembra di essere stata ad Assisi per tutto il tempo della lettura, nonostante le divagazioni ero lì a guardare Chiara, a scandire il tempo con le sue attività. E dopo aver chiuso l’ultima pagina, mi son sentita quasi smarrita di essere ancora qui, a casa mia, nel mio letto comodo.

5 stelle. Alla Maraini che, nonostante i suoi dubbi, ha lasciato che Chiara la prendesse per mano e la guidasse nella sua vita. Senza tracciarne un ritratto poco veritiero, ma rispettando la sua vita e la sua volontà di essere “rivoluzione”.

 

 

 

 

All’alba guarda ad Est

Quando la sveglia suona alle 4 di un sabato mattina, sai già che la tua giornata non sarà la più bella della tua vita.

La strada per l’aeroporto, buia, il cielo ancora nero, sembra impossibile che alle 5.30 la luce ancora non faccia capolino nel cielo.

O forse è colpa di tutte quelle luci finte, quelle che di notte coprono le stelle, quelle che illuminano di un bagliore aranciato le nuvole all’orizzonte, quelle che ti fanno dimenticare che ora è.

Un aeroporto vuoto, con solo una fila di gente, che va tutta nello stesso posto, perché il vantaggio degli aeroporti piccoli è quello di poter sapere, più o meno sempre, dove va tutta la gente.

L’ansia da bagaglio a mano, la “gentilezza” degli operatori aeroportuali. Sì, lo so che siete svegli da orari impossibili e state lavorando, ma non tutta la gente che parte lo sta facendo per piacere, magari ogni tanto ricordatelo. Che c’è qualcuno che parte con il cuore gonfio di speranza, che c’è qualcuno che rimane e saluta con le lacrime agli occhi e quella speranza sottopelle.

E poi la strada del ritorno, la luce che pian piano apre le tenebre, ma lotta di più a causa delle nuvole: non sarà un’alba rosa, è leggermente grigia, appena azzurrata.

E ha qualcosa che rende anche le nuvole poetiche, anche quelle gocce di pioggia fitte e leggere.

A casa hai qualcuno che aspetta, qualcuno che dorme ancora, qualcuno a cui portare una colazione zuccherata e buona per poter rimettere una giornata su binari se non sereni, almeno tranquilli.

Il barista che ti guarda, ti sorride: “Oggi all’alba?”

E morbide girelle, cornetti, ciambelle e pasticciotti che ti occhieggiano da dietro una vetrina.

Pensieri sconnessi di un sabato mattina iniziato troppo presto.

 

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Avevano spento anche la luna.

Lina ha appena compiuto quindici anni quando scopre che basta una notte, una sola, per cambiare il corso di tutta una vita. Quando arrivano quegli uomini e la costringono ad abbandonare tutto. E a ricordarle chi è, chi era, le rimangono soltanto una camicia da notte, qualche disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno del 1941 quando la polizia sovietica irrompe con violenza in casa sua, in Lituania.
Lina, figlia del rettore dell’università, è sulla lista nera, insieme a molti altri scrittori, professori, dottori e alle loro famiglie. Sono colpevoli di un solo reato, quello di esistere. Verrà deportata. Insieme alla madre e al fratellino viene ammassata con centinaia di persone su un treno e inizia un viaggio senza ritorno tra le steppe russe. Settimane di fame e di sete. Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di lavoro dove tutto è grigio, dove regna il buio, dove il freddo uccide, sussurrando. E dove non resta niente, se non la polvere della terra che i deportati sono costretti a scavare, giorno dopo giorno.
Ma c’è qualcosa che non possono togliere a Lina. La sua dignità. La sua forza. La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio. Quando non è costretta a lavorare, Lina disegna. Documenta tutto. Deve riuscire a far giungere i disegni al campo di prigionia del padre. È l’unico modo, se c’è, per salvarsi. Per gridare che sono ancora vivi. Lina si batte per la propria vita, decisa a non consegnare la sua paura alle guardie, giurando che, se riuscirà a sopravvivere, onererà per mezzo dell’arte e della scrittura la sua famiglia e le migliaia di famiglie sepolte in Siberia. Ispirato a una storia vera, Avevano spento anche la luna spezza il silenzio su uno dei più terribili genocidi della storia, le deportazioni dai paesi baltici nei gulag staliniani.

Ho sempre considerato Estonia, Lettonia e Lituania tre piccole nazioni sul mar Baltico, parte dell’Unione Sovietica quando io studiavo la geografia. Non ho mai pensato, non mi son mai fermata a pensare perché queste nazioni facessero parte dell’URSS.

In questo libro non c’è il perché, c’è il come. Come una nazione intera, in questo caso la Lituania, è stata spezzata e costretta a inginocchiarsi. Come la cerchia dei cosiddetti “intellettuali” sia la prima a esser coinvolta e perseguitata.

Lina è un’artista. Una che ama Munch, che capisce Munch (e mi ha aiutato in parte a capirlo), una ragazza che ha dei sogni, delle aspirazioni come qualsiasi ragazza di quindici anni.

Quante volte vengono distrutti i nostri sogni e le nostre aspirazioni? Quante volte possiamo cambiare idea?

A Lina vengono fatti a pezzi nel peggiore dei modi: la deportazione in Siberia, la perdita della sua famiglia.

Ma Lina ha anche dalla sua una testardaggine e una forza di volontà non da poco, l’orgoglio di una persona che non si fa spezzare e l’incoraggiamento di chi le vuole bene a non cedere a “quegli uomini” neanche la sua paura.

Con questo libro, ho continuato il mio personale viaggio nella storia contemporanea, quella che, spesso, nei libri di storia non è narrata, o che è raccontata in maniera meno grave o sminuita.

Ma c’è davvero tanta differenza tra i campi di concentramento e la Siberia? O la differenza è solo nel fatto che alcune storie son durate troppo e troppe persone hanno chiuso gli occhi?

Troppo facile girarsi dall’altra parte, troppo facile ignorare quello che non ci piace, nascondere la testa sotto la sabbia.

Per tornare al libro, solo un’unica pecca: il finale affrettato. Capisco la volontà e anche, credo, il “non poter andare oltre” su alcune questioni ancora troppo spinose, ma da un momento all’altro mi son trovata all’ultima pagina con una domanda pressante in testa: “come ha ripreso tutti i suoi disegni?”

Da leggere, da amare parola per parola, e da ricordare.

“Hanno scelto la speranza e non l’odio e hanno dimostrato al mondo che anche alla fine della notte più buia c’è la luce.”

 

Ogni mattina a Jenin

Di vibrante realismo e inesorabilmente diretto alla verità, racconta con sensibilità e pacatezza la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di senza patria.

La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell’arco di quasi sessant’anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. In primo piano c’è la tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta. L’autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi descrive con pietà, rispetto e consapevolezza, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all’amore.

Come dice anche l’autrice, la storia di Amal non è vera. Ma è vera la storia della Palestina, di Israele, e la guerra tragicamente barbara che continua a insanguinare una terra. Una terra che è di nessuno, una terra che è stata “assegnata” a qualcuno, senza tener conto di chi la viveva e la amava.

Non so molto della storia contemporanea. Un po’ perché nella mia scuola, il punto massimo di arrivo è stata la guerra fredda tra USA e URSS, un po’ perché, egoisticamente, il Medio Oriente non ha mai catturato la mia attenzione.

Sto imparando a non ascoltare solo una fonte, un solo parere. La storia la scrivono i vincitori, o i più forti, ma ogni vicenda ha due lati, due facce da dover valutare.

In questo romanzo, la storia è dal punto di vista dei palestinesi, di coloro che quella terra la abitavano, e se ne son visti spogliare. Spogliati di tutto, della terra, delle loro ricchezze, costretti a vivere in campi profughi, in tende che diventano sempre più una casa.

Quanto l’odio può dare vita ad altro odio? Quando si può odiare qualcuno solo per l’appartenenza a un popolo?

L’olocausto della seconda guerra mondiale non ha veramente insegnato nulla agli uomini? La conseguenza diretta dell’olocausto è stata la persecuzione e l’esilio di chi, secondo le opinioni dei “vincitori”, abitava la Terra Promessa.

Come si fa a nascondersi dietro Dio per portare la morte e per sentirsi giustificati a far tutto?

Il libro non è però un grido d’odio. Non condanna gli israeliani, non considera i “terroristi” dei salvatori e dei martiri.

Il romanzo traccia un percorso d’amore. Quell’amore che nonostante tutto, alla fine, serve a far vincere, e rende vincitore chi lo usa come scudo.

L’amore di Hassan per Dalia, che lo porta a superare le tradizioni.

L’amore di Dalia per i suoi figli, che la rende forte e quasi “fredda” nel suo amore per Amal.

L’amore di Yussef per Fatima, che sfida ogni tempo, ogni logica, ogni ragione.

L’amore tra Huda e Amal, amicizia talmente profonda che sfida ogni tempo, ogni difficoltà e si rinnova sempre.

Un percorso d’amore attraverso la Palestina e Israele, attraverso il Libano, la Tunisia.

Un viaggio nell’odio profondo, quello che bombarda gli ospedali, che fa crollare le case, che uccide i bambini tra le braccia e nel grembo delle madri, un odio che non perdona. Stemperato da un amore che supera ogni cosa, anche la morte, il terrorismo e le accuse.

Non è facile poter separare i sentimenti dalla lettura, essere completamente imparziali nel giudicare la storia. Ma la storia non può essere fatta di interessi, la storia è fatta di persone, la maggior parte delle volte comuni. che lottano, vivono, amano, odiano, muoiono.

Un romanzo che vale la pena di leggere, almeno per poter togliere una parte del velo che ci copre gli occhi e che ci fa odiare qualcuno solo per il colore della pelle, solo per la sua religione, solo perché non è come noi e siamo convinti abbia rubato qualcosa alla nostra vita.

Per dieci minuti.

Tutto quello con cui Chiara era abituata a identificare la sua vita non esiste più. Perché, a volte, capita. Capita che il tuo compagno di sempre ti abbandoni. Che tu debba lasciare la casa in cui sei cresciuto. Che il tuo lavoro venga affidato a un altro. Che cosa si fa, allora? Rudolf Steiner non ha dubbi: si gioca. Chiara non ha niente da perdere, e ci prova. Per un mese intero, ogni giorno, per almeno dieci minuti, decide di fare una cosa nuova, mai fatta prima. Lei che è incapace anche solo di avvicinarsi ai fornelli, cucina dei pancake, cammina di spalle per la città, balla l’hip-hop, ascolta i problemi di sua madre, consegna il cellulare a uno sconosciuto. Di dieci minuti in dieci minuti, arriva così ad accogliere realtà che non avrebbe mai immaginato e che la porteranno a scelte sorprendenti. Da cui ricominciare. Con la profonda originalità che la contraddistingue, Chiara Gamberale racconta quanto il cambiamento sia spaventoso, ma necessario. E dimostra come, un minuto per volta, sia possibile tornare a vivere

No. Non mi è piaciuto.

Il mio primo approccio (e credo l’ultimo) con la Gamberale è stato un fallimento.

Dalla sinossi non mi aspettavo certo Guerra e Pace. Ma, potenzialmente, era un libro godibile e divertente, e pensavo anche “istruttivo”.

La mia già ridimensionata impressione si è dimostrata ancora troppo ottimistica.

Per dieci minuti è un libro “vuoto”, pieno di luoghi comuni, e che ti lascia una sensazione di nulla una volta finito.

Non so fino a che punto la storia sia autobiografica, ho preferito non indagare troppo. Ma il mondo è pieno di donne che soffrono, che perdono tutto in pochi istanti, che finiscono a chiedersi il senso della propria vita. E, per quanto possa essere interessante e bello, il gioco dei dieci minuti non è qualcosa che fa passare la sensazione del fallimento. Solo il tempo che passa, le distrazioni, le amicizie, e perché no, occuparsi di tutt’altro, a prescindere dai dieci minuti, fanno diventare quello che è successo solo un’altra cicatrice.

Mi ha molto innervosito il continuo parlare di “Mio Marito”, il metterlo sempre e comunque al centro, anche quando non avrebbe dovuto esserci, anche quando, dopo mesi, sarebbe stato il caso di mandarlo definitivamente a quel paese.

L’unico momento veramente bello è stato quello dei “dieci minuti” (che poi dieci non son stati) con la madre. A chiederle veramente “come stai?”, a interessarsi veramente di colei che di tutti si preoccupa e che mette sé stessa in secondo piano.

Ed è stato l’unico momento degno di nota, quello che, ammetto, mi ha riempito gli occhi di lacrime.

Poi, libro piatto, spesso tentata di abbandonarlo, mi son ripetuta che, per meno di 200 pagine potevo fare uno sforzo.

Uno stile di scrittura confusionario, poco chiaro. Frasi lunghe, intervallate da tante virgole e continui cambi di soggetto e predicati verbali. Una scrittura gonfiata per nascondere quello che effettivamente diceva: nulla.

Tre stelline. Solo per l’amore della mamma.

 

 

Signore e signori… [The Hunger Games – La trilogia]

“Felici Hunger Games e possa la fortuna essere sempre a vostro favore.”

Quando uscì il primo film della trilogia ero estremamente scettica.

Orfana di Harry Potter, un film che veniva paragonato e veniva designato come erede della “mia” Saga, mi faceva storcere il naso. E diventare “snob” nei suoi confronti.

L’ho snobbato al cinema e ignorato in libreria.

Poi, una mattina facevo zapping in tv e Hunger Games era appena cominciato. Pronta a confermare che la mia impressione alla cieca era esatta, mi ci metto a guardarlo.

Scena dopo scena, la storia degli Hunger Games, di Katniss, e il silenzio che riempie il film lì dove le immagini bastano a descrivere tutto, mi hanno conquistata. Letteralmente. Tanto che a poco più di metà, ero in ansia per la fine, e avevo dimenticato ogni idea.

Da lì la decisione di leggere la trilogia. In fondo, dopo libri e libri di mille pagine (l’uno), una trilogia di meno di 1500 pagine complessive non mi faceva certo paura.

Presi, letti e divorati in meno di una settimana, al netto degli impegni e dei problemi.

Hunger Games non è l’erede di Harry Potter. Hunger Games, forse, è una storia “scopiazzata” da storie precedenti e idee che si somigliano.

Ma Hunger Games ti prende e lega alle pagine. Ti lascia stordita, confusa e piuttosto in ansia, anche dopo che è finita l’ultima pagina dell’ultimo libro.

Il punto di vista è quello di Katniss Everdeen, sempre. Ogni avvenimento è filtrato dai suoi occhi, reinterpretato secondo le sue idee, distorto dalla sua comprensione. E inevitabilmente, forse, si finisce per vedere in questa protagonista una debolezza che non si riesce a superare.

Pagina dopo pagina, gli orrori degli Hunger Games si accumulano. Insieme a un punto di vista politico che diventa man mano più interessante. Il potere logora. Il potere ha in mano la vita e la morte dei più “piccoli” e dei più deboli. La propaganda serve solo a strumentalizzare gli avvenimenti, tant’è che le stesse cose, lette da un lato o dall’altro assumono una connotazione completamente diversa.

Sono ancora piuttosto scossa dalla fine, che non svelo in nessuna maniera, neanche sotto tortura.

Di una cosa però mi sono convinta. Mai dare retta a quello che dicono “i critici” che non vedono l’ora di etichettare qualcosa come erede di qualcos’altro. Come Harry Potter è una storia a parte rispetto al Signore degli Anelli, come Percy Jackson ha poco a che vedere con Harry Potter, così è Hunger Games. E forse è anche poco adatto agli adolescenti, perché quando gli Hunger Games diventano cruenti, il gioco della sopravvivenza è difficile.

Un difetto? Forse il finale leggermente “affrettato”.

Sicuramente il punto di vista unico e personale di Katniss, rende la storia interessante e “personale”, ma la Collins, per forza di cose, si trova costretta a saltare alcuni avvenimenti a piè pari, perché Katniss è in altri luoghi, e a riassumerli con flash back o racconti che, narrativamente parlando, confondono le idee.

Un punto di forza? La narrazione è scorrevole. Fatta di pensieri e sentimenti, fa scivolare le parole sul foglio e le dita sulle pagine, come poche storie riescono a fare. Riuscendo a non esser scontata, neanche nel finale.