Di malumori e giornate storte.

Ci sono giornate che iniziano male.

Ci sono giornate che partono male già dalla sera prima.

Ci sono giornate che possono essere aggiustate solo con una lunga passeggiata al sole. Che poi è il motivo per cui mi ritrovo in un bar in centro, con un cappuccino bollente e un cornetto al cioccolato.

Memoria

“Troviamo di tutto nella nostra memoria: è una specie di farmacia, di laboratorio chimico, dove si mettono le mani a caso, ora su una droga calmante, ora su un veleno pericoloso.”

Marcel Proust

La memoria è una cosa strana. Ci sono cose che credi di aver dimenticato, e poi tornano prepotenti a farti visita nei momenti più impensati.

Ci sono cose che credi di ricordare benissimo, ma poi provi a scavare e ti accorgi di averle rimosse.

Da un po’ di giorni, ogni volta che mi sveglio, mi viene in mente l’odore del caffè di orzo a casa della nonna, un odore che non sento da anni, ma che era una costante ogni mattina prima di andare al lavoro, o in università. Quasi come servisse per cominciare la giornata nel modo giusto.

Che poi, io neanche lo bevo il caffè d’orzo.

Mi sfuggono invece le voci, le espressioni del volto, le piccole cose che vorrei ricordare ma che sono diventate come acqua tra le dita. Più mi concentro per recuperarle, più sfuggono.

Seguendo il filo dei pensieri, risvegliati dal canto degli uccelli, la sua vita gli appare un seguito d’occasioni mancate. [Palomar]

Quando mi chiedono quale sia il mio scrittore preferito, ho sempre un po’ di difficoltà a rispondere. Perché è una domanda stupida.

Non esiste uno scrittore preferito, non esiste un libro preferito. Può esserci uno scrittore, che se dovessimo scegliere tra altri, sarebbe la nostra prima scelta, ma non vuol dire che sia il nostro preferito. Né che tale scelta rimanga immutata nel tempo.

A volte dipende da cosa ci stia riservando la nostra vita in quel momento, quale libro stiamo leggendo e cosa ci ha spinto a sceglierlo tra gli altri.

Ma se torno con la mente ai libri che ho letto nella mia vita (che non saranno tanti, ma che hanno lasciato in qualche modo segno del loro passaggio) c’è qualcosa che mi fa pensare, una specie di costante.

L’ammirazione, pura, per il modo di scrivere di Italo Calvino, la sua forma, il coraggio dei suoi contenuti.

Lo pensavo a 11 anni, quando ho letto la sua trilogia degli antenati.

Lo pensavo a 17, quando è tornato nella mia vita con le Cosmicomiche e Se una notte di inverno un viaggiatore.

Lo pensavo qualche anno fa quando, quasi per sbaglio, ho letto Lezioni Americane.

E lo penso tuttora, dopo aver letto del signor Palomar, del suo modo di vedere le cose, quelle di tutti i giorni, quelle un po’ insolite.

Il suo guardare e amare le giraffe, perché la loro andatura, il loro equilibrio instabile riflette quasi il suo cercare un equilibrio nella vita di sempre.

Le sue difficoltà ad avere a che fare con le altre persone, col mondo che lo circonda.

L’impossibilità di uniformarsi, di “arrendersi” in qualche modo alla sua diversità, l’invidia per chi ha un comportamento normale, per chi riesce ad affrontare la vita come lui non riesce a fare.

Quando credete di saper scrivere, di scrivere belle storie, provate a leggere Calvino.

Titolo: Palomar

Autore: Italo Calvino

Edizione: Mondadori, edizione Kindle

Il vento tra i capelli

Ci sono sensazioni che non si dimenticano mai, che finiscono in una parte recondita della memoria e pensi che non torneranno più.

Poi, ti basta poco.

Una bici nuova, una giornata di sole, un cestino di vimini, e tutto a un tratto riaffiorano un miliardo di ricordi.

Quella sensazione del vento nelle orecchie, quel momento in cui smetti di pedalare su una strada in discesa, e quello che ti manca è solo un paio di ali.

Perché poi, l’unica cosa che conta è quel cielo azzurro, quelle nuvole sfilacciate che ti ricordano, che qualsiasi cosa succeda, loro sono sempre lì, più o meno bianche, più o meno dense.

Quasi quasi mollo tutto e divento felice.

Gita al Faro

Finora, di Virginia Woolf, avevo solo letto racconti, che mi avevano lasciato un po’ indecisa. Per questo mi sono accostata a Gita al Faro un po’ incerta.

Incertezza che si è disgregata pagina dopo pagina.

Gita al Faro ha una struttura in tre parti, la prima è una specie di presentazione, se così si può chiamare, di chi “danza” in questo libro.

La finestra, perché è attraverso quella che vediamo tutti: la signora e il signor Ramsay, i loro figli e gli ospiti della loro casa in campagna.

Ma è la signora Ramsay il fulcro di tutte le vite, accentra sulla sua figura tutti i pensieri e i comportamenti, decide cosa fanno i figli, manovra le azioni del marito, combina coppie e matrimoni.

Per tutta la prima parte, si parla di una gita al faro, quella che dà il titolo al libro, gita che il signor Ramsay non permette di fare perché il tempo meteorologico parrebbe non permetterlo. E per tutte le pagine di questa prima parte, il rancore della signora Ramsay verso il marito si alterna a pensieri sul fatto che sia giusto non andare al faro in quell’occasione. Alla fine, questa gita non si farà, nella seconda parte, Il tempo passa, la famiglia sarà travolta da eventi spiacevoli, [spoiler] la signora Ramsay verrà a mancare di notte, in una descrizione di tre righe che spezza quasi il cuore dalla sensazione di mancanza che trasmette, anche la figlia Prue perirà partorendo, e il figlio Andrew morirà sotto le bombe. E la casa in campagna verrà abbandonata all’incuria, trascurata e sola. Finché la famiglia, con ospiti annessi, non decide di tornare.

Si arriva quindi alla terza parte, Gita al Faro, in cui vediamo la signora Ramsay descritta attraverso gli occhi di Lily Briscoe, i suoi piani ormai andati per la loro strada. Ovviamente è in questa parte che, finalmente il signor Ramsay, con i figli minori Cam e James si reca al faro.

Faro che, attraverso gli occhi di Cam, viene ridimensionato.

Virginia Woolf crea una parabola, una curva di descrizioni e comportamenti che fanno credere una cosa, ma che vengono in parte smentiti dalle descrizioni successive, quello che sembrava perfetto diventa più incerto, i confini si confondono, si sfumano. E le opinioni cambiano, così come le prospettive.

E sì, ho cambiato idea sulla Woolf.

Titolo: Gita al Faro

Autore: Virginia Woolf

Traduttore: Anna Nadotti

Edizione: ET Classici, Paperback, 2014

Quando il termometro segna 37.8

Quando siamo bambini, non vediamo l’ora di sentire la temperatura salire, prendere il termometro e verificare che sì, abbiamo la febbre, e per qualche giorno possiamo non andare a scuola, riposare e guardare la tv.

Poi si diventa grandi, e la febbre spesso è qualcosa che non va bene. Perché ti fa perdere giorni di lavoro, perché ti costringe a rimanere solo in casa a pensare, ti intristisce, e ti toglie tutte le forze.

Come mi son trovata io in questi giorni, con la febbre non abbastanza alta da poter dire “ecco, ho l’influenza” ma sufficientemente da costringermi a stare a letto a rimuginare.

Ed è così che mi son trovata a guardare l’Eredità. Che era il programma che guardavo con nonna, ogni sera, per tutta la settimana.

E mi sento sempre un po’ più sola quando ci ripenso…

Io non mi chiamo Miriam.

Gli scrittori nordici hanno questo modo di raccontare la vita che non è pari ad altri.

E lo conferma anche questo libro, che parla di Auschwitz, di Ravensbrück, dei sopravvissuti e di coloro che hanno perso tutto in un modo diverso.

È una storia vera, ma allo stesso tempo non lo è.

Perché Miriam è una sopravvissuta, che si porta dietro il segreto del tradimento, il tradimento verso sé stessa, verso chi l’ha amata, un tradimento fatto per vivere, da chi della vita ha un pallido ricordo.

E come sempre, quando finisco un libro così intenso, sento che mi ha lasciato qualcosa dentro, ma sento soprattutto di averci lasciato dentro qualcosa di mio.

“Era piacevolissimo sentire il peso delle lenzuola, bianche e lisce, e della coperta tirata. La tenevano al suo posto ed era bello essere una persona che aveva un posto.”

Titolo: Io non mi chiamo Miriam

Autore: Majgull Axelsson

Traduttore: Laura Cangemi

Edizione: Iperborea, 2016

Spezzoni di ricordi.

Ci sono alcune cose che ricordo talmente chiaramente che mi sembrano false.

Come per esempio, mio padre che il sabato sera mi asciugava i capelli davanti la tv.

E il sabato sera, quando io ero bambina, c’era sempre “Scommettiamo che…?”, una costante dei miei sabato prima di andare a dormire.

E sono i primi ricordi che ho di una persona come Fabrizio Frizzi, mi ricordava anche il mio papà, saranno stati gli occhialoni, quella folta massa di capelli neri, la pacatezza con cui conduceva quel programma, quel sorriso.

Poi è diventato la voce di Woody, e irrimediabilmente, chi si lega alla Disney e ai cartoni, diventava e diventa parte della mia vita.

Negli ultimi anni, Fabrizio Frizzi è stato la costante nelle serate passate con i nonni, con la nonna, che lo guardava sempre, lo chiamava per nome, e che, anche se sorda, rideva con lui.

Forse sono tutte queste cose che non smettono di farmi piangere da due giorni.

O forse è solo per la sensazione di perdita che un uomo così corretto, educato e umile lascia inevitabilmente dietro di se.

Non lo so. So solo che non riesco neanche guardare una foto, un video, leggere un’intervista che inizio a piangere.

Quante persone sfiorano le nostre vite e ne rimangono a margine? Quante invece lasciano una traccia così profonda e neanche ce ne accorgiamo?

Pagine e pellicole

Chiunque nella vita si sia mai appassionato a qualcosa, sa che ci possono essere cose per cui si va letteralmente in fissa, e cose che piacciono che possono anche essere una costante della tua vita. Al punto che continui ad amarle anche se le conosci a memoria.

Capita con quei libri che periodicamente torno a leggere, come se tornassi a casa. O con quelle serie che continuo a guardare nonostante tutto.

Ci sono serie che guarderei a ripetizione, che guardo a ripetizione, e su cui piango a ripetizione.

Come ER, nelle puntate in cui muore il dottor Greene, le prime puntate di una serie che mi hanno spezzato letteralmente il cuore.

Come le ultime puntate di Friends, dove la leggerezza della commedia non riesce ad annullare la tristezza dell’addio.

Come l’ultima puntata di Gilmore Girls, dove sembra finire definitivamente l’adolescenza, fai un tuffo nell’età adulta, e non sai neanche se ne potrai uscire indenne.

Come in Piccole Donne, quando Beth si accorge e comunica a sua sorella che non rimarrà a lungo con lei, continui a girare pagina dopo pagina sperando di non dover mai affrontare quel dolore, che invece ti colpisce, come un’onda. E dopo qualche anno, dopo qualche tempo ti accorgi che il dolore, quello vero, fa esattamente così, come fosse un colpo sotto la cintura.

Che ti lascia senza fiato, te lo fa riprendere, e poi ti atterra di nuovo. Come se non volesse mai smettere.

Forse sono così affezionata ad alcune pagine, ad alcuni racconti, perché raccontano esattamente quello che ho sentito, quello che sento, sono legati alla mia vita così come io sono legata a loro. E mi aiutano anche a trovare il modo per affrontare tutto nella maniera giusta, o almeno nella maniera migliore possibile.

Una persona non è altro che i suoi ricordi. Sono i suoi ricordi a renderla ciò che è.

Il mio dentro non corrisponde al mio fuori. [Molto forte, incredibilmente vicino.]

Ho aspettato tanto per poterlo leggere.

Avevo paura di quello che avrei potuto trovarci. E in realtà ci ho trovato più di quello che pensavo, ma anche meno di quello che avrei

Ho aspettato tanto per poterlo leggere.

Avevo paura di quello che avrei potuto trovarci. E in realtà ci ho trovato più di quello che pensavo, ma anche meno di quello che avrei immaginato.

Perché non è la storia di quello che è accaduto sulle Torri, è la storia di chi è sopravvissuto alle Torri, delle famiglie, delle vite che non sono state più le stesse. E probabilmente non lo saranno mai.

Tutto passa attraverso gli occhi di Oskar Schell, bambino autistico (o almeno credo) con difficoltà a relazionarsi col mondo esterno. Oskar, con un papà che cerca di aiutarlo a superarle,con un papà che è nelle Torri in quell’11 settembre. Un papà che muore in quelle Torri. E lascia Oskar e la sua mamma a fare i conti con la sua perdita, e con tutto quello che vuol dire.

Le grandi tragedie fanno sempre perdere il senso della piccolezza, come se fosse tutto troppo per poter pensare a ogni singola vita spezzata, a ogni famiglia che ha dovuto affrontare la perdita senza mai dover saper il perché.

Nessuna perdita ha un perché, ma la perdita dovuta a qualcosa di “stupido” come una dimostrazione di forza o un atto di terrorismo, come si affronta?

Come fa Oskar, forse.

Cercando un modo per non pensarci, e finendo a pensarci ancora di più. Cercando di non parlarne, e finendo a parlare di tutto quello che si è creduto di poter chiudere in qualche posto.

4 stelle.

A New York un ragazzino riceve dal padre un messaggio rassicurante sul cellulare: “C’è qualche problema qui nelle Torri Gemelle, ma è tutto sotto controllo”. È l’11 settembre 2001. Tra le cose del padre scomparso il ragazzo trova una busta col nome Black e una chiave: a questi due elementi si aggrappa per riallacciare il rapporto troncato e per compensare un vuoto affettivo che neppure la madre riesce a colmare. Inizia un viaggio nella città alla ricerca del misterioso signor Black: un itinerario ricco di incontri che lo porterà a dare finalmente risposta all’enigmatico ritrovamento e ai propri dubbi. E sarà soprattutto l’incontro col nonno a fargli ritrovare un mondo di affetti e a riaprirlo alla vita.


Titolo: Molto forte, incredibilmente vicino.

Autore: Jonathan Safran Foer

Traduttore: Massimo Bocchiola

Edizione: Guanda, Kindle Edition, Maggio 2013